Finte cause, la gang degli avvocati furbetti

Redazione

Finte cause, la gang degli avvocati furbetti

lunedì 19 Febbraio 2018 - 09:57

Arresti domiciliari per un ex avvocato di Messina radiato da 14 anni, due avvocati catanesi e un procacciatore di affari accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa. Si tratta di Vincenzo Vanaria, 58 anni, Carmelo Paterini, 56 anni, Cinzia Pavano 48 anni, e Domenico Risiglione, 60 anni.

Vanaria, spacciandosi per avvocato, pur essendo stato radiato dal 2004, attraverso un’associazione di tutela dei consumatori con sede a Giardini ha promesso a decine di persone che avevano bisogno di tutela legale perché in gravi difficoltà debitorie sicuri successi nelle cause legali da intentare contro il fisco o contro alcune banche.
L’ex avvocato, con la complicità di due legali catanesi e di una terza persona che si occupava di trovare le potenziali vittime, attraverso un’abile opera di convincimento, intascava ingenti somme di denaro contante senza tuttavia far seguire a ciò nessuna delle azioni giudiziarie progettate.
L’inchiesta, coordinata dalla Procura messinese, è stata condotta a partire dal 2013 dai carabinieri. Dalle indagini è emersa una vera e propria struttura criminale piramidale al cui vertice era Vanaria che dava agli altri le direttive da seguire.
Paterini svolgeva il compito di ricerca della clientela attirata tramite una associazione paravento, la “F.E.O. – Progetto Benessere”. Tavano e Risiglione ricevevano da Vanaria i mandati per intentare le cause e le istruzioni da seguire sulla gestione delle azioni legali.
Gli inquirenti parlano di truffe seriali con un tratto comune: uno schematismo collaudato ed efficace nel portare a incassare denaro contante o assegni bancari corrisposti a fronte di una parvenza di attività legale da svolgersi. L’attività non veniva in realtà posta in essere o veniva svolta solo formalmente. I clienti ideali erano persone indebitate con l’erario o nel pagamento di mutui e altre incombenze rateali.
L’associazione criminale millantava la possibilità concreta di ridurre il debito o la restituzione di gran parte dei soldi fino allora corrisposti dai debitori in vista del “miraggio” di una condanna della banca per anatocismo e per applicazione di tassi usurari.
Nella seconda fase, dopo i primi contatti con gli interessati ad opera del procacciatore, entrava in scena Vanaria, sedicente esperto di cause del genere che, con grande capacità di persuasione, prospettava agli interlocutori rapidi e sicuri successi nelle cause da intraprendere.
Vanaria a volte si spacciava per avvocato ancora in attività, altre per coordinatore di un “pool” di legali e, dopo aver illustrato le azioni da intraprendere, adoperando tecnicismi giuridici – ai più poco comprensibili – provvedeva a chiedere ai clienti il denaro sostenendo che sarebbe servito per il pagamento dei contributi unificati e delle sole spese vive legate alle pratiche e rassicurando le vittime che per il patrocinio non avrebbe chiesto nulla visto che sarebbe stato ripagato dalle sicure condanne delle controparti.
Nell’ultima fase della truffa entravano in gioco Tavano e Risiglione, entrambi del foro di Catania, che erano i legali collegati a Vanaria e che avrebbero potuto effettivamente patrocinare. Le vittime firmavano dinanzi a Vanaria dei mandati “ad litem” in bianco attraverso i quali poi venivano conferiti gli incarichi ai due.
A distanza di molti mesi dalle consegne di denaro e dalla firma dei mandati, quando i clienti chiedevano conto a Vanaria delle azioni legali e delle somme già versate, gli avvocati Tavano e Risiglione, che fino ad allora non avevano intrattenuto alcun rapporto diretto coi loro assistiti, sistematicamente rinunziavano ai mandati.
Vanaria, per rabbonire le vittime, prometteva loro la restituzione delle somme corrisposte chiedendo le coordinate bancarie e dimostrando disponibilità alla restituzione del denaro senza mai in realtà farlo. Solo in piccola parte le somme anticipate venivano impiegate per versare i contributi unificati.
I casi accertati finora sono stati 15 e la banda avrebbe guadagnato circa 100 mila euro. Le poche attività effettivamente messe in atto dagli indagati sono consistite nello stilare degli atti di citazione senza poi iscrivere le cause a ruolo: le azioni legali non venivano poi coltivate e praticamente restavano abbandonate, generando ulteriore danno agli assistiti.
Oltre alla beffa del denaro perso, le vittime hanno subito ulteriori danni economici per la mancanza di tutela negli affari legali che li vedevano interessati, soccombendo nelle cause presso il tribunale civile o le commissioni tributarie per mancanza di costituzione. Da questi procedimenti sono, infatti, spesso scaturiti provvedimenti esecutivi in loro danno, pignoramenti o provvedimenti su beni immobili e ulteriori spese per interessi. I carabinieri continuano a indagare perché si sospettano altri casi e invitano eventuali vittime a rivolgersi a una delle 93 stazioni della provincia.