Lo scorso 9 aprile è stato approvato il cosiddetto “Decreto Liquidità” che, attraverso un potenziamento del Fondo di garanzia, mira nell’immediato a iniettare liquidità anche a favore delle piccole e medie imprese in crisi per via dell’emergenza coronavirus. Stando a quanto riportato sul sito istituzionale del Fondo di garanzia, il decreto in questione prevede che “su piccoli prestiti fino a 25 mila euro per professionisti e PMI l’intervento del Fondo copre il 100% del finanziamento senza che venga effettuata, ai fini della concessione della garanzia, la valutazione del merito di credito”; in particolare, l’ammontare del prestito, che in ogni caso non può essere superiore a 25 mila euro, corrisponde al 25% del fatturato conseguito nel 2019.
Tutto bene dunque: liquidità immediata per tutte le pmi in sofferenza a causa della crisi sanitaria in corso, senza che venga effettuata su di esse una qualche valutazione del merito creditizio. Tuttavia, la realtà dei fatti sembra essere leggermente diversa rispetto a quanto è stato disposto dal governo nazionale. Infatti, un allarmato Enrico Spicuzza, presidente dell’ordine dei dottori commercialisti di Messina, ci ha contattato per segnalarci che le banche realizzano eccome una valutazione del merito creditizio delle imprese prima di erogare tali prestiti, con la conseguenza che molte delle aziende in crisi a causa del covid rischiano di non ottenere la liquidità necessaria per poter sopravvivere durante la delicata fase di riapertura delle attività: “Questa forma di automatismo così come il governo lascia immaginare in effetti non c’è, – spiega Spicuzza – in quanto siamo di fronte a una decretazione d’urgenza che presenta tantissime lacune. In particolare, l’erogazione del prestito passerà in ogni caso dalla valutazione del merito creditizio. Ciò significa che un cliente in stato di sofferenza non può accedere al beneficio di questa agevolazione. Non facciamoci false illusioni: presentare la pratica in banca non implicherà automaticamente l’erogazione del prestito”.
“Stando a quanto previsto dalla normativa, – prosegue il presidente dell’ordine dei dottori commercialisti di Messina – le banche sono chiamate ad adempiere fondamentalmente a tre obblighi: non devono realizzare indagini conoscitive sulla clientela, devono adeguarsi alle normative antiriciclaggio e devono assicurarsi che il cliente non abusi del diritto di accesso al credito. In quest’ultimo caso si fa riferimento a quel cliente intenzionato a usare impropriamente tali agevolazioni per ripianare vecchie passività che, pertanto, non sono dovute all’emergenza coronavirus. Infatti, è fondamentale sottolineare che tali prestiti sono una forma di agevolazione creditizia finalizzata. L’agevolazione creditizia è infatti finalizzata a far fronte a qualcosa di specifico, in questo caso alle passività venutesi a creare a causa dell’attuale crisi sanitaria. E credo che sia proprio questo il motivo per cui le banche sembrano orientate ad erogare questi prestiti attraverso l’uso dei conti correnti dedicati, che non sono obbligatoriamente previsti dal Decreto Liquidità”. Spicuzza ci spiega poi che le banche starebbero richiedendo ai propri clienti una documentazione ulteriore a quella minima prevista dalla legge: “Si tratta in genere di una documentazione non prevista dalla normativa vigente che, tra le altre cose, non è facile da ottenere nell’immediato”.
“Un aspetto che non viene affrontato esplicitamente dalla legge è come debbano comportarsi le banche in questa fase. – aggiunge Spicuzza – Al riguardo farei un richiamo alla ratio legis, che in questo caso è quella di semplificare il credito, intervenire immediatamente e far fronte a tutte le emergenze finanziarie del cliente”. Il presidente dell’ordine dei dottori commercialisti di Messina ha evidenziato infine che gli evidenti ritardi registrati con riferimento all’erogazione della cassa integrazione sono dovuti all’iter farraginoso da dover portare a termine: “Il procedimento previsto è davvero farraginoso. La macchina amministrativa a Palermo deve innanzitutto esaminare queste pratiche, che poi devono essere mandate all’Inps. L’Inps a sua volta dovrà lavorarle per poi inviarle a noi commercialisti. Tutto ciò comporta che i lavoratori non vedranno lo stipendio di marzo prima di metà maggio”.